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Domenica, 19 Marzo 2017 18:04

Conversazione in Oratorio: Giobbe “pedagogia della sofferenza”

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giobbe bigLa Prof.ssa Marcella Morbidelli presenta a San Giovanni Decollato il Libro di Giobbe per una sapienziale pedagogia del dolore e della sofferenza. L'incontro organizzato dalla Parrocchia e dall'Arciconfraternita per la serie "Conversazioni in Oratorio". Di seguito proponiamo il testo dell'incontro.

Parlare del Libro di Giobbe in un tempo così limitato è arduo, direi impossibile.

E’ un Libro alla vetta della letteratura universale: eminenti biblisti, eccellenti rabbini, letterati di tutti i tempi e di tutto il mondo lo hanno commentato, al punto tale che la cosa più semplice sarebbe stata quella di indicare una bibliografia piuttosto che aggiungere altre parole. Meditare su questo testo significa lasciarsi coinvolgere nel profondo e avvertire la crisi che fa dire a Giobbe: “Qual è la strada del soggiorno alla  luce?” ( 38,19)

“L’uomo nuota disordinatamente nelle parole” (Gb11,12) pur di trovare un senso al problema del dolore innocente il cui grido ancor oggi si leva impietoso, al problema del male costantemente dilagante, alla povertà giudicata troppo spesso colpevole, all’assenza di Dio che sembra non ascoltare l’invocazione dell’uomo, alla comprensione dell’ esistenza.

La preghiera di Giobbe, come la nostra, non attende nulla se non il silenzio. “Mantenete il silenzio, e vedrete Dio”, recita un Salmo. Ed è nel silenzio che si arriva alla “resa”, cioè alla consegna a Dio nella consapevolezza di una appartenenza.

Il Libro di Giobbe si inserisce negli Scritti, ovvero nei Libri sapienziali che mettono in evidenza cosa si intenda per Sapienza nella Bibbia, ma qui non si è scelto di fare una lezione di teologia biblica.   Ci troviamo, in ogni caso, non di fronte a un racconto esemplare, ma ad un testo biblico che proclamiamo essere “Parola di Dio”. Un Libro perciò nato nella fede, scritto nella fede, e donato per crescere nella fede; solo così potremo comprenderne il valore e, nonostante le molteplici domande che lo stesso Libro pone e lascia aperte, qui ci soffermeremo solo sul tema della Sapienza della Fede.

Personalizzeremo perciò questo tema tanto antico quanto eminentemente attuale, e in buona parte ci soffermeremo: sulla “prova” che la fede deve attraversare; su che cosa significhi essere persone di fede, e quale fedeltà l’uomo deve a se stesso e quindi a Dio.

La fede è un cammino, è la prima delle tre virtù teologali, e non può essere scissa dalla speranza e dalla carità; vedremo allora come la speranza non appartenga solo al futuro, ma soprattutto all’Invisibile; quell’Invisibile che è parte viva di noi stessi e che dobbiamo rintracciare  per giungere alla completezza: un cammino accompagnato dall’Amore di Dio che ci ha voluto sue creature delle quali Egli è “geloso”, per questo si può giungere alla fede vera solo scoprendo il senso reale della propria creaturalità.

Così Giobbe travalicherà ogni idea di destino, di fede tradizionale che vuole il bene solo come compenso, travalicherà la religiosità finalizzata per la quale avvicinarsi a Dio è solo rendergli onore nel benessere per conservarlo e per evitare castighi.  Giobbe arriverà a vivere senza più alcuna garanzia,  a un passo dalla morte,  nella solitudine più assoluta, dove ogni consiglio amicale non farà che appesantire il dubbio, e dove si sentirà ingiustamente provocato nella colpa.  Egli arriverà a maledire la sua stessa esistenza che troverà ‘vuota’ senza la compagnia di Dio;  scaccerà anche la tentazione della moglie che lo inviterà a non continuare a cercare un Dio ormai assente. Giobbe non smetterà di interpellare il Dio silenzioso esclamando: “Parlerò  nell’angoscia del mio spirito …nell’amarezza dell’anima mia “ (7,11). “Ho avuto in eredità mesi di delusione, notti di angoscia” (3,26). La sofferenza acutizza la coscienza e questa inasprisce il dolore tanto da far desiderare: “..magari mi dissipassi nelle tenebre, e l’oscurità velasse il mio volto” (23,17) dice Giobbe. La sua lucidità lo tiene in vita e in tensione lungo la prova, l’apparente mancanza di senso diviene parte del senso stesso.

Giobbe alla fine comprenderà che la vera perdita di se stesso è la perdita di Dio, della sua realtà, perché   Dio è vita in sé, e pronuncerà la bellissima frase: “Anche se  mi uccide, io spero in lui”. (13,15)

Giobbe a questo è giunto dopo aver dichiarato la sua innocenza in tutti i modi e dopo aver interrogato Dio stesso sulla sua giustizia.  Dio gli si manifesterà in una grandiosa epifania nella quale  gli mostrerà le meraviglie della creazione, di fronte alle quali Giobbe ammutolirà  esclamando:  “Mi metto la mano sulla bocca”. ( 40,4)

 Contemplare la natura significa comprenderne la complessità, l’unità dei contrari negli interventi divini, e l’inadeguatezza della ragione umana a spiegarne il suo comportamento. Da ciò si può dedurre che nel modo in cui Dio tratta gli uomini, è presente la stessa complessità, una unità di opposti: ragionevolezza, giustizia, ma anche gioco e magia. Quando Giobbe riconosce nel Dio della natura, con la sua pienezza di attributi, lo stesso identico Dio che si rivela nel suo destino personale, il tumulto della sua anima è sedato. Ha sondato la verità dell’indole divina, non è più torturato da un concetto inadeguato a rendere conto dei fenomeni, come lo era la sua nozione precedente dell’agire ordinato di Dio, e cioè solo come qualcuno che assicura un ordine e conferisce il bene.

Allora Giobbe rispose al Signore e disse:

“Comprendo che puoi tutto

e che nessuna cosa è impossibile per te.

Chi è colui che, senza avere scienza,

può oscurare il tuo consiglio?

Ho esposto dunque senza discernimento

cose troppo superiori a me, che io non comprendo.

Ascoltami e io parlerò,

io ti interrogherò e tu istruiscimi.

Io ti conoscevo per sentito dire,

ma ora i miei occhi ti vedono.

Perciò mi ricredo

e ne provo pentimento sopra la polvere e cenere”. (42,1-6).

La sventura ha riportato al centro quello che era periferico, e la perplessità che ne è risultata è una testimonianza della fede di Giobbe, perché lo ha gettato sì nella confusione, ma non lo ha trasformato in un cinico, in un negatore di Dio. L’esperienza di Dio che aveva fatto nel momento della prosperità gli aveva impresso una convinzione indelebile della bontà di Dio che ora gli veniva confermata. Giobbe trova consolazione nella scoperta della complessità di Dio, egli è uomo saggio perché intuisce la natura dell’opera divina nel mondo e riconosce pure i limiti della sua ottica precedente. Manifestazione della sua pace con Dio, del suo rinnovato vigore spirituale, è il fatto che si ricostruisce una vita. Egli diventa un vaso nel quale possono di nuovo riversarsi benedizioni: colui che voleva morire appena nato (così si era espresso Giobbe nella sventura) diventa padre di nuovi figli e figlie. “La mia gloria si rinnoverà sempre, e i miei giorni si moltiplicheranno come palme”. (29,20) Come se dicesse: Dio,  rimanendo sempre uguale in sé, rinnova tutte le cose, Egli moltiplicherà i miei meriti per il cielo, come la palma moltiplica i suoi rami.

  Il passaggio attraverso la notte dell’angoscia fa risorgere Giobbe a una vita spirituale nuova, a una concezione religiosa nuova, a una relazione con Dio non più da straniero, ma da amico. L’occhio dell’uomo vede come in uno specchio, non può manipolare la luce ma si può specchiare in essa, e specchiarsi in Dio vuol dire riconoscersi  e ritrovare la relazione perduta nel disordinato cammino della ricerca.

Perciò il percorso di Giobbe definisce il difficile percorso della fede come atto dinamico. La notte oscura dell’anima, così ben descritta da S. Giovanni della Croce che nella Salita al Monte Carmelo cita spessissimo Giobbe, e da altri mistici cristiani, dice  che l’unione mistica con Dio deve  necessariamente passare attraverso ’la notte oscura’ della purificazione in cui l’anima, di fronte allo splendore di Dio che la sta unendo a sé, non sente più la presenza di Dio ma avverte tutta la propria miseria di fronte alla pienezza dell’essere e della luce di Dio. L’interpretazione che la mistica cristiana ha dato al silenzio di Dio sperimentato da Giobbe, è appunto quella della notte oscura , che non è segno dell’assenza di Dio, ma di una sua presenza più intensa, di un amore esclusivo che vuole elevare l’anima eletta a una altissima unione con lui.  Qui si affaccia il problema della relazione che nella vita di fede diviene circolare.  Ascoltare il silenzio di Dio è ascoltare il suo grido di abbandono nella sofferenza del mondo. Infatti, se Dio stesso la assume, vuol dire che il silenzio di Dio di fronte alla sofferenza, è rotto dalla Parola che parla attraverso la sofferenza degli uomini, dei poveri, degli abbandonati.

In questo percorso  possiamo riconoscerci in molti.  L’invito è a leggere la Sacra Scrittura non come un Libro staccato da noi, ma intrinseco alla nostra esistenza, riconoscere perciò i ‘passaggi’ della nostra crescita spirituale, i nostri turbamenti, l’azione di Dio sulla nostra vita.

Tentiamo ora di applicare alla nostra vita di fede questo racconto.

Giobbe, come ognuno di noi, conosce l’aspetto religioso del suo tempo, la sua tradizione. Egli è uomo ricco e potente e benedice Dio ogni giorno creando anche nella sua famiglia armonia spirituale (così ci racconta il testo). A questo lui è attaccato fedelmente, convinto che Dio è pregato e lodato per i beni che concede. Facile fin qui e anche rassicurante. Quando perderà i suoi beni, figli compresi, la sua fedeltà non verrà meno: “Dio ha dato, Dio ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”. Ma tutto ciò resta esterno a lui. Il dramma si intensifica quando il Satan lo mette alla prova toccando la sua carne, gettandolo in una malattia che potrebbe condurlo alla morte, facendogli sperimentare la solitudine più infeconda, mettendolo nelle condizioni di azzerare ogni certezza, quasi una negazione di identità.

Dio in questa situazione sembra non rispondere più. Ogni benedizione appare scomparsa perché legata a una esistenza vitale e l’uomo Giobbe è disorientato. Egli non vede le colpe che gli amici gli propongono di rintracciare, si proclama assolutamente innocente. Ma chi è davvero innocente di fronte a Dio?

Buddha insegna che la causa del dolore è l’attaccamento. In realtà molti di noi danno significato alla propria ricchezza, materiale o spirituale, come un possesso, l’acquisizione delle cose, come quella del potere, diviene un fatto identitario. Si sentono spesso anziani che nella vita hanno cercato di esprimersi attraverso la ricerca   di ricchezze,  trovare difficile cederle. Cedere parte di se stessi all’altro non è così distante dal con-cedersi a Dio spogliandosi delle certezze.

In questa situazione spesso ‘fissiamo’ la dinamica della nostra vita, giudicando chiunque non rientri in questi schemi che troviamo legittimi, anzi morali, anzi obbedienti ai Comandamenti divini. Una risposta di vita asettica, che non riconosce la tradizione come la pedana di lancio verso la crescita, ma come una garanzia. Il  giudizio negativo che applichiamo a chi non è come noi, diviene una autentica proiezione di noi stessi, una proiezione che, tuttavia, non riconosciamo come tale, e che, dunque non diviene pedagogica.

Un altro problema che il Libro di Giobbe mette in luce  è quello del male. E’ nel linguaggio comune l’affermazione che i cattivi, i profittatori alla fine sono i più tranquilli e a loro non accade mai nulla. Difficilmente pensiamo  - e non solo sotto il profilo della fede -  che questi personaggi non sanno fare diversamente, anzi “non sanno quello che fanno” e che questa è già di per sé una loro autocondanna.

Esistono due generi di innocenza: una che oserei chiamare immanente, (fisica, scevra dalla scelta del male in sé) ed un’altra spirituale che solo Dio può giudicare perché il più alto livello di fede è proprio quello della verifica della propria incompiutezza e dell’ignoranza di Dio, senza il quale nessuno può dirsi davvero innocente, cioè puro, rivestito della originalità nella quale Dio lo ha dotato.  Abbiamo un esempio in Gesù di questa seconda innocenza. Egli, pur conoscendo il male dell’ignoranza rispetto al progetto di Dio sull’uomo, si abbandona alla morte inflitta da questa ignoranza  e la consegna a Dio perché la trasformi e Dio stesso mostrerà, attraverso la resurrezione di Suo Figlio, la possibilità per l’uomo di ritornare a una relazione di gratuito amore. Già in qualche modo il Libro di Giobbe lasciava profetizzare questa possibilità attraverso la restituzione dei suoi beni e di una nuova relazione con il Creatore.

La dinamica della fede domanda anche un cammino di consapevolezza di sé, del riconoscimento vocazionale che distingue la persona, quella ‘dotazione’ che andrebbe esercitata con generosità. Anche la consapevolezza del proprio limite  rientra nel quadro della fede perché  questa non solo  accompagna l’umiltà,  ma consente alla preghiera di offrire a Dio l’incompiutezza relativa a ogni esercizio di vita.

Esistono , nella vita di molti, dolori privativi primari, devianze dovute a vissuti violenti che riescono a paralizzare lo slancio verso un recupero. L’uomo in questa situazione resta in una ‘fissità’ che non trova uno sblocco in una dinamicità legittimata e spesso il grido della sua sofferenza arriva all’altro come un fastidio, alle volte come il timore di una disgrazia possibile. Dove trovare la forza per rivolgere a un Dio silente la propria invocazione?  La risposta a questo quesito è in parte nascosta nei fratelli di fede. Qui non basta l’esercizio della compassione e nemmeno quello che troppo spesso chiamiamo rispetto umano. Ogni uomo ha nel suo cammino delle difficoltà, si tratta di com-prendere il vuoto esistenziale più o meno profondo e di condividerlo senza la pretesa di farsi potere dell’altrui debolezza, con la delicatezza di chi avverte di non avere alcuna onnipotenza a disposizione se non quella dell’amore.

Non si tratta di ‘indagare’ per avere la pretesa di una risposta come fecero gli amici di Giobbe, ma di affiancare la debolezza e il dolore altrui. Come Giobbe noi tutti possiamo passare dalla ‘dipendenza’ da Dio alla ‘relazione’, e a questo arriviamo attraverso il riconoscimento dell’altro da sé, così come, di fronte al totalmente Altro che è Dio, sentiamo di non essere dominati ma assistiti.

Giobbe ci insegna l’assoluta trascendenza di Dio e chiede la rinuncia all’immagine, al primato della bontà, alla certezza relativa alle nostre azioni, per vivere nella fede di una innocenza consenziente, così come insegna lo stesso Gesù sulla Croce.

Ardua è la fede dell’uomo, ma è un po’ come la vita: una domanda sempre aperta, una pratica costante di consapevolezza.


Marcella Morbidelli Contardi

23 marzo 2017

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